All’hotel dei giorni immobili non brillano le stelle

Pubblicato il 8 Maggio 2020 in Primo Piano

Mettere un punto. La grande incapacità del calcio italiano di tirare una linea e ricostuire. La crisi mondiale – legata al Covid-19 – non accelera la mutazione di un movimento scopertosi fragile e a un passo dal baratro.

AUTOREFERENZIALI – Le inutili chiacchiere sugli stipendi milionari della Serie A sono state buone per riempire penne e tasti di chi si sentiva costretto di continuare la narrazione del nulla. Nel frattempo – dalla Serie B in giù – la crisi attanagliava ragazzi dagli stipendi normali, e a volte neanche puntuali. Come spesso accade, poi, arrivati gli accordi tra big l’interesse è scemato: argomento non più interessante, col silenzio complice di tante società che hanno, quindi, trovato “transazioni” che nessuno conoscerà mai. Coperta corta quella che non copre il calcio italiano: centinaia di società obbligate a rispettare contratti, allo stesso tempo proprietà legate ad aziende in crisi economica che mettono – per forza maggiore – il calcio in secondo piano. La Serie A continua il suo dibattito sulla ripartenza mentre il sistema alle spalle crolla, paragone impossibile con altri tornei europei (forse solo la Spagna ha viaggiato su errori simili ai nostri). Mostro a troppe teste che si disinteressa del generale e prova a difendere il proprio orticello spoglio. Il trucchetto della Serie A è abbastanza chiaro: la terza rata dei diritti televisivi non può essere persa, non può quindi essere la Lega Serie A a dire la parola “fine”. A quel punto Sky e Dazn sarebbero giustificate nel non dover versare l’ultima tranche dell’accordo. Se, invece, fosse il Governo a bloccare le manifestazioni sportive (come accaduto in Belgio e Olanda) le società della massima serie potrebbero trovare una transazione con i broadcaster, forti del fatto che le decisione sullo stop non dipende da loro. Passaggio difficilissimo questo, vista la chiara incompetenza decisionale e comunicativa di un ministro come Spadafora. Sempre pronto alla retorica e mai alla decisione. Serie A nel limbo, lo stesso di una Serie B che aspetta di capire cosa si farà al piano di sopra per comprendere come riscrivere le prossime iscritte. Benevento su tutte a volere la promozione quasi di ufficio, giustificata da un vantaggio immenso sul resto delle concorrenti. Una questione di merito, la stessa che rivendica il presidente della Lega Serie C. Il consiglio della terza serie ha fatto la sua proposta, Ghirelli ha parlato di “merito”, palesando la totale discordanza col suo contrario e con la realtà.

IL DEMERITO – La riunione tra le 60 società della Serie C ha prodotto una proposta – che adesso è al vaglio della FIGC – di assoluta visione personale. Blocco di retrocessioni e ripescaggi, ma già pronte 4 promozioni. In Serie B il pass arriverebbe per Monza, Vicenza e Reggina più il Carpi (probabile) dopo un’astrusa media ponderata. Tutto risibile. La furbizia che questo Paese è convinto di poter esercitare nei confronti del prossimo scrive una nuova pagina di patetismo. La Serie C chiede quattro posti nella prossima Serie B ma – di contro – chiude alla possibilità di retrocedere dicendo “alt” alle 9 prime della Serie D. La logica? Nessuna. Il presidente Ghirelli passa da un’intervista all’altra, finisce pure a SkySport24 parlando di promozioni legate al merito senza che nessuno alzi un ditino per chiedergli: “Mi scusi, e il demerito?”. Nulla da dire sul cammino di Vicenza, Monza e Reggina (soprattutto le ultime due per vantaggio), ma le ultime per quale motivo dovrebbero essere tutelate? Fano, Rieti o Gozzano perché non dovrebbero finire in D per lasciare posto alle varie Mantova, Grosseto, Palermo o Matelica? Nulla di diverso da quello che Ghirelli chiede alla B per le sue formazioni in testa ai gironi. Corto circuito logico, con la chiara evidenza che in testa al calcio non ci sia nessuna forma di intelligenza superiore. La proposta della Serie C è irricevibile, perché la stessa cosa potrebbe essere decisa dalla B o dalla D. Tutte potrebbero pretendere di premiare il “merito” e salvaguardare chi ha fallito sul campo. Vero che i campionati avevano ancora molti verdetti da far esprimere al gioco, ma più di venti giornate dicono parecchie verità. E se queste possono essere rivendicate da chi sta in alto, lo stesso deve valere per chi sta sul fondo.

INCAPACI DI RICOSTRUIRE – La crisi legata al Covid-19 smaschera il calcio italiano: fragile, povero, sovradimensionato. 60 società professionistiche in Serie C sono una barzelletta che non fa ridere. Ogni anno saltano – anche in corsa – società di proprietà farlocche o schiacciate dai conti. Lo sa bene il numero uno del calcio italiano Gravina: ora presidente FIGC, ma prima presidente della Lega C con fallimenti a stagione in corso. La famosa meritocrazia italiana. Se sono comprensibili i miserabili motivi della Serie A, diventa incredibile assistere al tentativo di mantenere lo status quo dalla B in giù. In massima serie si prova a riprendere per i diritti (soldi che le società si fanno anticipare dalle banche al momento della firma degli accordi), cosa che non succederà negli altri campionati. Non provare, quindi, a riscrivere i tornei tagliando i rami secchi è l’errore che il calcio italiano rischia di pagare per un decennio. Federazione e Leghe trovino delle sedie comode e una calcolatrice funzionante, il primo passo dovrà essere quello di capire realmente quante e quali siano le società che possono permettersi di stare tra i Pro. Sono 100 – al momento – i posti tra i Professionisti tra Serie A e C. Un numero palesemente insostenibile per l’economia italiana anche prima del Coronavirus. L’occasione è propizia per una riforma reale, sostanziale e sostenibile. Il “merito” sportivo va legato a quello finanziario. Inutile continuare a chiacchierare di classifiche se domani si rischia di collezionare fallimenti. Mettendo da parte Serie A e B – che difficilmente vorranno ridurre il numero di squadre – l’obiettivo va spostato sulla C. A dirlo è lo storico degli ultimi anni, quelli ricchi di fallimenti ed estati passate a parlare di fideiussioni e mancate iscrizioni da Nord a Sud, isole comprese: 60 non è un numero credibile per il professionismo di terza serie. Una chance la regala il semi-professionismo: un gradino sopra il dilettantismo e uno sotto alle regole e costi del professionismo. La vecchia C2 potrebbe tornare in auge ma con regolamenti diversi. Una Serie C snellita in due gironi da 18 e formati da società solide dal punto di vista finanziario per ricostruire la base del calcio italiano. A cascata si avrebbe una C2 (se il nome non vi piace decidetelo pure voi) col modello anni ’90 (3 gironi da 18, ma potrebbe essere anche più snello) ma senza gli obblighi economici della C e con la possibilità di fare da serbatoio per i giovani con regole (scritte con intelligenza) su tesseramenti e utilizzo. La D tornerebbe un torneo territoriale e non inferno per nobili decadute. Difficile? Forse impossibile finché si penserà di mantenere i vantaggi attuali, col classico vizio italiano di spazzare la polvere sotto il tappeto. Occorrerà una presa di coscienza di Federazione e società: il sistema è collassato, ripartire come se nulla fosse rappresenterebbe il primo passo verso la fine definitiva.

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