Messina-Avellino, lavorare è meglio che curare

Pubblicato il 2 Ottobre 2023 in Primo Piano

Crescere per vincere e vincere per crescere. Le prestazioni del Messina prima del successo contro l’Avellino avevano soddisfatto, ma per il passo in più occorrevano maturità e consapevolezza diverse. Un processo di crescita in corso che rivela come questa squadra non fosse, semplicemente, ancora pronta.

SBAGLIANDO SI IMPARA – Il pari di Cerignola strappato alla fine, il contrappasso firmato Turris fino alla sconfitta che continuerà a far storcere il naso di Francavilla. Un tris di mancate vittorie che avrebbe potuto far sorgere qualche dubbio. Le partite, però, vanno guardate, analizzate e capite. Il Messina – come detto – non era ancora arrivato a quel livello di crescita tale per portare a casa un successo. Imparare dagli errori è fondamentale, e la squadra di Modica ha mostrato di aver compreso quanto il campo aveva detto. Contro la Turris aveva vinto la paura di non vincere, un paradosso psicologico che era diventato utile ai campani per schiacciare i giallorossi fino al pari. Modica, nel post gara, era più arrabbiato per la scarsa volontà di attaccare il pallone in avanti e difendere attaccando. La ricerca del quarto gol non sarebbe stata presunzione, ma la firma in calce alla vittoria. Così non è stato, ma una squadra che non impara è una squadra che non capisce. Il Messina ha capito e contro l’Avellino lo ha dimostrato. Chiaro, la prestazione generale non è stata perfetta e priva di sbavature. Difficile, però, che in stagione si potrà raccontare di qualcosa di simile alla perfezione. Il rischio è accettato e con esso vanno messe in conto le ondate avversarie. L’Avellino passa quasi mezz’ora a pressare e imporre intensità, con un Messina che sembra sorpreso dall’atteggiamento di forcing degli irpini. Non c’è contenimento, ma resistenza. Si pressa in alto, la linea difensiva avanza ed i centrali restano scoperti perché i terzini accompagnano la manovra come Modica vuole. Per Manetta il registro di gioco è accettabile, Ferrara barcolla. In campo aperto viene scelto da Sgarbi, Varela e Patierno come il più attaccabile ed i fatti danno loro ragione. Ferrara arranca nella corsa aperta, ma quando può usare il fisico non è un cliente così facile per gli attaccanti di Pazienza. Chiaroscuro, ma anche questo era previsto. La fase difensiva è la cosa più interessante della partita del Messina, sia quella del primo tempo che di una ripresa in cui andava protetto il vantaggio.

DIFESA CONSAPEVOLE – C’è maturità, capacità di apprendere dagli insegnamenti delle altre sfide ma anche consapevolezza. Il Messina, infatti, attacca alto pressando ma non è squadra sbilanciata o sbarazzina. No, perché l’Avellino non è formazione facile da scalfire. I giallorossi, allora, provano a sporcare il primo possesso restando molti corti in campo. Tre linee strette e che si muovano a fisarmonica. Ci si alza insieme e si scala indietro insieme. Avellino che perde lucidità e velocità in costruzione, e che perde profondità quando la squadra di Modica si abbassa. Ma non troppo, infatti un paio di offside vengono segnalati. Insomma, non si invita all’assedio. Un certo ordine viene rispettato, anche quando si passa per qualche minuto a un 4-4-2 abbastanza ibrido. Poi, si torna al modulo classico per sfruttare la velocità sulle fasce di Zunno e Cavallo. Che entrano male e non è una novità. Non per loro, ma in generale dalla panchina sta arrivando meno di quello che ci si aspetta. Soprattutto, dai più giovani e in momenti in cui potrebbero diventare decisivi. Anche questo, però, è un passaggio di crescita. Nella ripresa il Messina non punge così tanto, anche perché Emmausso sceglie una prestazione leziosa e poco utile, mentre Plescia deve pressare e sfiancarsi. Nel finale gli spazi si aprono, quello era il momento esatto in cui le nuove punte esterne avrebbero dovuto dare di più. Non funziona la fase di finalizzazione, quello che funziona è lo stile di gioco: insistere nel pressing, muoversi di squadra restano disposta su tre linee senza schiacciarsi serve per difendere meglio e senza affanno. L’Avellino, infatti, non crea molto in azione dinamica. Sì, un destro di Sgarbi che Fumagalli smanaccia in corner, ma visto il livello degli irpini è quasi nulla. La sofferenza arriva su palla inattiva – stesso terreno di gioco in cui si è stati pericolosi – ed è il momento per Fumagalli di salire in cattedra. Perché, anche nel gioco più organizzato, i singoli devono sempre incidere.

IL LAVORO SPECIFICO – La breve parentesi su qualche prestazione specifica diventa obbligata. Fumagalli è il migliore in campo e che sia in una di quelle giornate di grazia lo si capisce dai primi istanti. Para, respinge e dribbla pure quando pressato. Ermanno c’è e si fa sentire, anche nel post quando più che polemico è arrabbiato non tanto per le critiche ma per le “etichette”, come le chiama lui. Con la Turris ha sbagliato, ma se fosse scarico – eufemismo per interpretare chi pensa che sia troppo vecchio per giocare – avrebbe già cambiato mestiere e vita. Tutti sbagliano, quando lo fa il portiere si nota solo di più. Fumagalli trascina, ma la partita contro l’Avellino è buona per entrare nel dettaglio di alcuni calciatori meno in copertina. La prestazione di Manetta è totalizzante: alzare la difesa non lo spaventa, neanche rincorrere e menare. Sgarbi e Patierno sono grossi, lui duella e quando serve malizia ce la mette. Chiude, praticamente, tutto e sembra di rivedere il calciatore che nella prima esperienza in riva allo Stretto difendeva a centrocampo per poi rincorrere. Sono passati 6 anni, ma l’esperienza aiuta. Loro due rubano l’occhio, poi c’è chi lavora nello sporco e nell’ombra: Giulio Frisenna. Un calciatore che va ancora scoperto del tutto, ma che nelle prime uscite sta stupendo. Applicato nelle due fasi, sempre lucido in fase di possesso e spesso sfacciato nelle giocate. Non presuntuoso, ma anche lui consapevole delle cose di cui è capace. La crescita generale passa da quella individuale, con i giovani che dovranno per forza di cose diventare un fattore decisivo. L’uomo che unisce i puntini di tutto questo resta Giacomo Modica. Un tecnico dallo spirito tattico ma dall’anima empatica, perché la forza delle sue squadre nasce sempre dal rapporto che è in grado di creare. Plescia nel post gara parla dell’allenatore come di un punto di riferimento fondamentale, e non sono parole di facciata perché quello che si vede in campo diventa conferma della solidità di questo rapporto. Sacrificio e applicazione non sono sempre atti dovuti, ma Plescia è entrato in sintonia comprendendo che il “bastone” che il tecnico usa nel ricercare un certo peso o nel pretendere precise richieste tattiche serviranno per la sua crescita in questa stagione e nella carriera.

Commenta

navigationTop
>

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fonire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o clicchi su "Accetta" permetti al loro utilizzo.

Chiudi